Siamo nel 2022, ma per le donne la strada è ancora in salita. Passi avanti ne sono stati fatti tanti, ma la parità è ancora un miraggio. Laura Boldrini, ex presidente della Camera, fa parte di quella lista di donne – fortunatamente in continuo aggiornamento – che è riuscita a occupare posti di rilievo. E proprio per questo ha fatto della parità la sua battaglia politica, pagando per le sue posizioni anche con attacchi e violenze. Ma lei va avanti per la sua strada e al tema ha oggi dedicato un libro, “Questo non è normale”, edito da Chiarelettere, che la parlamentare del Pd presenterà a Sassari, sabato 19 a Macomer, domenica 20 a Olbia e lunedì 21 a Cagliari.

Presidente Boldrini, perché l’Italia è così indietro sulla questione femminile?
«Non è stata mai considerata una vera priorità per il Paese. Si è sempre ritenuto fosse una “cosa da donne”. Nella mentalità vigente una cosa secondaria. E invece è una grande questione politica che riguarda l’intera società e sulla cui evoluzione bisogna fare un grande investimento».

L’Italia è un Paese patriarcale. Come si supera?
«Intanto, prendendo atto del problema. Se una cosa viene fatta continuamente si rischia di ritenerla normale, anche quando non lo è. Prendiamo i giochi. Siccome hanno sempre pensato che alle bambine piacessero pentoline e ferri da stiro e ai maschi i giochi meccanici o il piccolo chimico, allora continuano a riproporre quello stesso modello, proiettando le bambine in una dimensione prettamente domestica e dando ai maschietti la possibilità di allargare le proprie ambizioni. Il mio libro vuole mettere al bando tutti questi e tanti altri stereotipi e pregiudizi, prendendo atto del problema. È il momento di cambiare rotta. Basta abbozzare, stare zitte, di fronte a una discriminazione bisogna reagire. Come i ragazzi di Cosenza che hanno fatto quadrato intorno alle compagne, vittime di attenzioni improprie da parte di un docente. La nostra è una battaglia contro il silenzio».

Quando ha scoperto il significato di femminismo?
«Ho sempre combattuto per i diritti delle bambine e delle ragazze. Vivevo in una famiglia di 5 figli e avvertivo le differenze. Nella migliore tradizione degli anni ’60 – che purtroppo ancora perdura – io e mia sorella dovevamo aiutare la mamma, i fratelli maschi no. Ci siamo opposte. All’inizio non ci hanno considerate, poi la situazione si è fatta caotica e hanno scelto di ascoltarci. E alla fine si è deciso di fare i turni. Fu una piccola vittoria che dimostrava che affrontando le cose si ottenevano i risultati».

Nel libro tra le grandi femministe cita Grazia Deledda.
«È stata una femminista ante litteram. Una donna che si è liberata di molti condizionamenti, lasciando l’isola, sfidando la mentalità dell’epoca. Tanto che quando vinse il Nobel quel rosicone di Pirandello reagì malissimo. Se la prese con il marito, che invece, giustamente, aveva deciso di lasciare il suo impiego e affiancare Grazia come agente. Pirandello lo sbeffeggiò: “Grazio Deleddo”. Per lui non era dignitoso che un uomo che scegliesse professionalmente di stare accanto alla sua donna».

Da presidente della Camera ha cambiato il linguaggio: deputata, ministra. I suoi detrattori le chiamano boldrinate.
«Io vado ad affrontare temi con chiarezza, non mi nascondo. Gli attacchi non mi intimidiscono. L’odio nei miei confronti è stato organizzato e alimentato da una regia politica. Anzi, quando gli attacchi non arrivano mi chiedo dove ho sbagliato. I detrattori lo fanno per delegittimarmi, usano il ridicolo, l’irrisione perché sono senza argomenti. Loro vogliono una società retrograda, io guardo al futuro e i violenti li porto in tribunale».

Perché anche tra le donne ci sono molte resistenze a usare le declinazioni al femminile?
«Il patriarcato non colpisce solo gli uomini. Ci sono donne che si sentono più autorevoli se chiamate al maschile. Questo fa capire il livello del pregiudizio. Perché contadina sì, avvocata no? È l’Accademia della Crusca ad avere stabilito che i ruoli si declinano a seconda del genere e chi le riveste. Io non mi sono inventata niente».

Che ne pensa dello Schwa?
«Ne capisco il senso ma preferisco ribadire il maschile e il femminile di quei ruoli che per millenni sono stati esclusiva degli uomini. Quel piacere di declinarli al femminile non me lo voglio privare. Non è solo una questione di semantica, ma è il frutto di un percorso, di tante battaglie, di sacrifici».

Che effetto le faceva sentire: una donna al Quirinale. Non è sessismo anche questo?
«Ogni donna è un mondo a sé, con la sua biografia e le sue idee. Dire “candidiamo una donna” è altamente sessista, discriminatorio e insopportabile».

La sinistra è a parole più femminista della destra, ma più restia a dare spazio alle donne.
«I partiti di sinistra non hanno colto il valore dell’uguaglianza di genere che secondo me, insieme al cambiamento climatico, è la grande sfida del nostro futuro. In teoria a sinistra sono tutti d’accordo sull’uguaglianza, ma quando si tratta di distribuire gli incarichi le donne rimangono spesso nelle seconde file. Tutto ciò denota arretratezza politica e culturale. Letta pone più di altri la questione, ma ora mi auguro che quanto detto si materializzi in atti concreti».

Un politico femminista?
«Ho invitato alla Camera Justin Trudeau: debuttò con un “io sono femminista”. Ho sentito le stesse cose da Obama e Iglesias. A oggi in Italia non ci sono leader che si autodefiniscono femministi in modo identitario. Altrove lo sono anche conservatori come Boris Johnson. L’opinione pubblica non tollererebbe qualcuno che non lo è. Purtroppo in Italia non è così. Va anche detto che c’è stata pure una narrazione ridicola. Il femminismo è stata la più grande rivoluzione pacifica del ’900, scardinando millenni di sottomissione femminile. Le donne protagoniste di questo cambiamento sono eroine, eppure la narrazione dominante è quella di farne delle macchiette: arrabbiate, cattive, sciatte. Il femminismo deve essere raccontato guardando ai risultati: è l’ora di rendere merito a quelle donne che hanno rimesso mano al nostro ordinamento giuridico intriso di violenza, configurando un nuovo assetto volto alla parità e all’uguaglianza. Ma per arrivare fino in fondo ci vuole una grande rivoluzione culturale, cominciando dall’educazione alla parità di genere nelle scuole, al rispetto e alla condivisione delle responsabilità familiari».

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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