CAGLIARI. Franco Udella oggi compie 75 anni. L’ex campione del mondo dei minimosca e campione europeo dei pesi mosca di pugilato, due Olimpiadi (Città del Messico ‘68 e Monaco ‘72) alle spalle, è ancora un “ragazzino” tutto pepe. Lunghe camminate, partitella settimanale a calcio con gli amici e tappa al suo negozio (ora gestito dai figli) di articoli da regalo, artigianato sardo e articoli per premiazione, sia di mattina che di sera. Vita da pensionato? Nemmeno per sogno, lui non sa stare fermo, deve sempre fare qualcosa per sentirsi vivo.

Dopo Parigi 2024 il pugilato non sarà più sport olimpico. Che ne pensa?

«Una decisione assurda che mi permetto di definire una stupidaggine. La boxe ha storia e valori importanti, mi sembra tutto assurdo. Spero che ci ripensino perchè senza questa disciplina sarebbe un’Olimpiade monca».

All’ex campione del mondo Bruno Arcari è stato concesso il vitalizio. Ha seguito la vicenda?

«Sono contento che sia successo. Bruno lo conosco bene e non capisco come possa essere arrivato a questo punto. Forse ha fatto passi più lunghi della gamba. Chi fa sport a livello professionistico deve pensare anche al futuro, perchè si sa che le luci della ribalta prima o poi si spengono».

Dove tiene i trofei vinti?

«Qualcuno appeso all’ingresso del negozio, le altre cose a casa. I clienti sono curiosi, mi fanno domande e io racconto le mie imprese sul ring».

Tante sigle nella boxe di oggi, qual è la sua opinione?

«Di sicuro ai miei tempi chi era campione del mondo aveva un’importanza maggiore. Ora in una stessa categoria i campioni sono anche quattro. Questo non mi piace. Il pugilato non cresceva più, hanno trovato il modo per rimpinguare il numero dei praticanti».

Ricordi particolari della sua vita da atleta?

«Tempi belli quando facevo parte della nazionale. Giravo il mondo, conoscevo tanta gente. Con qualcuno dei compagni ci sentiamo ancora, per esempio con Abis e Capretti».

Come si svolgeva allora la vostra giornata?

«Sveglia presto, poi palestra e a seguire una camminata. Pranzo, riposo e poi ancora palestra per due ore. La cena e a letto. Noi atleti eravamo disciplinati, difficile trovare qualcuno che uscisse dal seminato».

Cosa le ha insegnato la boxe?

«A conoscere il significato della parola sacrificio. Il rispetto dell’avversario e dei valori dello sport nel vero senso del termine. Non è un luogo comune quando si dice che il pugilato è una palestra di vita».

Il match che ricorda con più piacere?

«In America con la Nazionale da dilettante. In quella occasione disputai alcuni combattimenti perfetti».

Quello da dimenticare?

«La sconfitta con Esteba nel combattimento con in palio il titolo mondiale. Vivevo la sconfitta come un lutto. Infatti quando ho perso due match di fila, ho capito che era il momento di dire basta. I pugni fanno male, possono lasciarti il segno se non ti fermi al momento giusto».

Ai suoi tempi a 30 anni si era già considerati vecchi per il pugilato, adesso c’è chi combatte anche a 50 anni.

«Premesso che la vita degli atleti si è allungata, credo che un limite di età vada imposto. Massimo 45 anni, andare oltre è troppo. Comunque se istituiscono la categoria over 70 sono pronto a tornare sul ring (grande risata)».

Ci racconta un aneddotto della sua carriera?

«Sono stato sette-otto anni con la nazionale dilettanti e ricordo di avere avuto tecnici fantastici. Quando andavo a Fiuggi per i raduni, riempivo una delle valigie di ricci di mare. I coach ne erano ghiotti e mi facevano le feste. Chi li apriva? Io naturalmente. Lo avessi fatto fare a loro li avrebbero rovinati. Si leccavano i baffi e mi dicevano: portali anche la prossima volta».

I “vecchi” della boxe dicono: non ci sono più i campioni di una volta. È’ d’accordo?

«È un momento particolare per la boxe ma non solo in Italia. Di grandi pugili in giro per il mondo ce ne sono pochi. Prima o poi torneremo anche noi ad avere campionissimi. Ora le palestre dove allenarsi sono belle, confortevoli. Ai miei tempi non era certo così».

Ha conservato amicizie nel mondo del pugilato?

«Ogni tanto facciamo delle rimpatriate a Roma tra vecchi pugili. Sono momento speciali, durante i quali parliamo del passato e del presente. Belle serate e a volte ci viene nostalgia».

Lei ha avuto un grande manager, Umberto Branchini. Che ricordo ha?

«Un grande uomo di sport. Io volevo ritirarmi dopo aver fatto la carriera da dilettante. Avevo 25 anni, lui mi ha convinto che avrei potuto fare bene anche da professionista. L’ho ascoltato e ho fatto come diceva perchè di lui mi fidavo. Una persona eccezionale, un secondo padre».

Suo figlio ha praticato sport ?

«Calcio e calcio a cinque a livello amatoriale».

Se avesse scelto il pugilato?

«L’avrei seguito, lasciato fare e incoraggiato. I miei figli sono sempre stati liberi, io non mi sono mai permesso di condizionare la loro vita e non parlo solo a livello sportivo. Mio nipote, per esempio, frequenta la palestra ma solo per tenersi in forma».

Un avversario sul ring col quale è poi diventato amico?

«A quei tempi non c’erano i mezzi di oggi, era difficile stare in contatto. Io abitavo a Cagliari loro Oltre Oceano. Però eravamo rivali solo sul quadrato».

Uno con cui non andava proprio d’accordo?

«Guardi, non è diplomazia, ma non ricordo di avere avuto screzi particolari. Semplice rivalità sportiva».

Un tempo la Sardegna sfornava grandi pugili in continuazione. Lei, Burruni e Puddu alcuni esempi. Oggi?

«È un periodo complicato. Dopo Erittu e Goddi mi pare che ci sia il vuoto. Purtroppo non vedo nessuno all’orizzonte. Questo mi dispiace ma io sono ottimista per natura e prima o poi qualcuno verrà fuori».

Ma va ancora in palestra?

«Abito vicino alla palestra Sardegna dove sono cresciuto e mi sono allenato per tantissimi anni. Ora non è molto frequentata. Ci passo due-tre volte la settimana, mi fa piacere salutare i maestri e i ragazzi che si allenano».

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Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Archivio

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