A poche settimane dalla pubblicazione è già un successo letterario che grazie al passaparola dei lettori sta varcando i confini della penisola. “La bambina sputafuoco” di Giulia Binando Melis pubblicato da Garzanti è un esordio di successo che racconta un’esperienza drammatica trasportando il lettore in una dimensione immaginifica. Laureata in filosofia Giulia Binando Melis ha già nel suo curriculum una collaborazione con la scuola Holden e tra gli obiettivi: diventare coraggiosa, leggere il leggibile, trovare il modo di viaggiare nel tempo per andare a chiacchierare con Calvino. Le 336 pagine dell’opera prima della ventottenne piemontese raccontano un pezzo doloroso dell’infanzia dell’autrice rimasto per anni custodito in uno di quei cassetti che si vorrebbero tenere chiusi per sempre. Eppure, Giulia, ad un certo punto sente l’esigenza di condividere con i lettori i giorni più difficili della sua vita, quelli legati alla scoperta di una grave forma di linfoma che la costringerà a soli 9 anni a passare lunghi periodi in ospedale. In una sorta di percorso terapeutico-letterario ecco che l’autrice riapre quel cassetto, reinventa la sua esperienza cucendo sulla realtà vissuta nuove storie. Personaggio chiave del romanzo è Mina: “La bambina sputafuoco” che il lettore conosce dal momento in cui le viene diagnosticata la malattia. Ma come ben chiarisce il sottotitolo “la Bambina sputafuoco” è «una storia di mille cieli stellati, due vite e un destino». E infatti il dolore, ci si accorge leggendo le prime pagine, non è assolutamente il tema principale della vicenda che racconta il valore dell’immaginazione e dell’amicizia. L’immersione nella storia è immediata anche perché la tecnica narrativa dell’autrice utilizza la freschezza del lessico tipico dei bambini per scrivere un romanzo in prima persona che entra in contatto diretto con chi lo legge. «Io mi chiamo Mina e mi piacciono molte cose: i denti di leone, il tonno in scatola, i libri, la ricotta, le lucciole e soprattutto i draghi, e le fiamme che escono dalla loro bocca. I draghi nessuno li uccide, sono fortissimi, e per questo io mi sento una di loro». Mina fa amicizia con Lorenzo anche lui ricoverato e arrabbiato con il mondo, insieme riescono ad “evadere”, a uscire fuori dalla situazione dolorosa che condividono. «Per tanti anni – dice Giulia Binando Melis – ho avuto la certezza che questa storia appartenesse solo a me che non l’avrei mai condivisa e tantomeno pubblicata».

Cosa le ha fatto cambiare idea?

«Un master che ho frequentato alla scuola Holden. Facevamo un esercizio “crudelissimo” che si chiama “Il cerchio” in cui si è invitati a raccontare frammenti importanti della propria vita che poi diventano argomento di scrittura. Io ho raccontato della mia esperienza con la malattia e ho poi letto la mia storia scritta da altri. Non è stata una bella sensazione. Ho capito che il momento era arrivato, dovevo essere io a raccontare la mia storia, il materiale non era più incandescente, potevo lavorarlo. Nel libro ci sono tanti ricordi e fantasia, personaggi veri e inventati».

Mina immagina di essere un drago sputafuoco perché proprio un drago?

«I draghi appartengono al mondo del fantasy il genere che amo di più. Ero una bambina solitaria, amavo perdermi nelle storie fantastiche che leggevo, immedesimarmi nei personaggi. Ero fissata con i draghi, cercavo ovunque tracce della loro presenza. Il drago è forte, fa paura, allontana ogni nemico ed è custode di tesori, il mio drago in particolare custodisce i sogni, le speranze, ciò che c’è di più prezioso, la vita stessa di Mina».

Il libro nasce da un’esperienza dolorosa. C’è un valore positivo nella sofferenza?

«Il dolore non insegna. Soffrire non serve a niente, ma credo che tutte le esperienze anche quelle dolorose possano essere elaborate e aiutarci a dare un significato alla nostra esistenza. In questo libro racconto un “dentro” e un percorso di fuga verso il fuori».

Il suo secondo cognome: Melis, svela origini sarde.

«Si è il cognome di mia madre credo sia importante portare con sé i cognomi di entrambi i genitori, identificano le nostre radici. Le mie sono tra Piemonte e Sardegna dove vivevano i miei bisnonni originari di Ballao e ho ancora tanti parenti che vivono nell’isola, le radici sarde sono ancora forti. La casa di famiglia era a Villaputzu. I miei ricordi di quel luogo? Anguille, bagni al mare, risate e un chiasso assordante, meraviglioso».

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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