“La disciplina di Penelope”, il suo penultimo romanzo pubblicato un anno fa nel Giallo Mondadori, è stato il romanzo italiano più venduto del 2021. È solo uno dei tanti record che Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha infranto nella sua carriera di autore bestseller. Da qualche giorno è uscita in libreria la seconda avventura di Penelope Spada, ex pm che ha abbandonato la magistratura a seguito di un misterioso incidente: “Rancore” (Einaudi, 18,50 euro) è subito schizzato al primo posto della classifica dei libri più venduti, dimostrando quanto questo personaggio sia entrato a pieno diritto nel pantheon degli investigatori di carta più amati nel nostro Paese. In questa seconda avventura Penelope si troverà a indagare sulla misteriosa morte di un barone universitario in odore di massoneria, ma al tempo stesso, in un abile gioco di specchi, l’autore svelerà i retroscena dell’incidente che ha portato Penelope ad abbandonare la toga.

C’è una caratteristica che accomuna i suoi personaggi più famosi: l’avvocato Guerrieri, il maresciallo Fenoglio e l’ex pm Penelope Spada. Sono personaggi che cercano di fare la cosa giusta in un mondo profondamente ingiusto, ma in questa sorta di missione sono morsi da un sacco di dubbi. Bertrand Russel diceva che: «Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi». I suoi personaggi sembrano il manifesto di questa affermazione.

«È proprio così. Tra l’altro questa di Russell è una delle mie citazioni preferite. Ognuno di questi personaggi ha il suo modo di porsi rispetto alla vita, alle esperienze, più denso di ironia amara a volte, come nel caso di Guerrieri, più speculativo per Fenoglio, e più doloroso per Penelope, soprattutto per via della storia che si porta dietro. Ma certamente è comune a tutti e tre il fatto di mettersi di fronte alle scelte cruciali, non come scelte ovvie, per le più varie ragioni, ma di andare alla ricerca di quella che sembra la cosa giusta fare. E non è di certo una scelta facile».

In questo libro fa un riferimento molto preciso alla deriva di un certo tipo di consorterie di gruppi di potere legati a una massoneria deviata che va ad abbracciare la magistratura. È una fotografia molto precisa della disillusione dei cittadini nei confronti della Giustizia italiana. Anche lei è vittima di questa disillusione?

«Non mi considero disilluso. Il che naturalmente non significa avere gli occhi coperti di prosciutto e non vedere cosa mi accade intorno. In generale, tendo a guardare – nei limiti di cui sono capace – il panorama d’insieme che è pieno di ombre, a volte cupe, ma appunto il panorama d’insieme, dove ci sono anche le persone che fanno bene il loro lavoro e faticosamente stanno alle regole, dentro e fuori dalla magistratura. A volte qualcuno a proposito dei romanzi di Guerrieri mi accusa di dimostrare con quel personaggio la mia sfiducia nella giustizia, e io rispondo che la mia interpretazione è proprio il contrario. Per Guerrieri, per esempio, il suo accettare la sfida nel processo anche di fronte a quelle che sembrano delle ingiustizie è un atto critico, di fiducia nel sistema della giustizia, e anche Penelope ha dei momenti in cui questo tipo di consapevolezza etica affiora in più passaggi e in particolare alla fine del romanzo quando si pone il problema di cosa fare della verità che ha scoperto».

A proposito di Penelope, lei sapeva già dal primo romanzo in cosa consisteva la “macchia” nella sua carriera che l’aveva portata a lasciare la magistratura?

«Sì, questo ha a che fare con una mia regola della scrittura, che si ricollega un po’ al principio dell’iceberg di Hemingway. Cioè, puoi scrivere anche pochissimo in quel libro di quel dato personaggio, ma devi sapere comunque tutto di lui o di lei. Posto che sono legittime tutte le soluzioni diverse, per quanto mi riguarda ho sempre trovato eticamente scivoloso – parlando di etica della scrittura – non sapere quello che è successo a un personaggio, anche se non lo si dice. Preferisco avere piena contezza sulla sua storia personale».

Al di là della ricerca del presunto colpevole o della verità sulla morte di Vittorio Leonardi, il romanzo indaga la capacità di rialzarsi dopo una caduta, dopo un errore che può avere effetti paralizzanti. In qualche modo è come se Penelope, lavorando sull’indagine che le è stata affidata, lavorasse anche su se stessa, per superare i traumi che l’hanno costretta nel suo limbo.

«È assolutamente così. Aggiungerei soltanto che lei di questo non è consapevole. Accetta una sfida, ma in realtà la accetta – soprattutto all’inizio – per ragioni non nobili, perché in realtà lei assume l’incarico non perché creda davvero che ci sia qualcosa da scoprire o perché ne abbia particolare voglia, ma perché vorrebbe riprendere il lavoro dove l’aveva interrotto, visto il soggetto dell’indagine, ed è così che in qualche modo accetta questo viaggio – utilizzando le categorie narratologiche – in terra sconosciuta dove inopinatamente ritrova se stessa, ed è catartico il fatto che riesca a ritrovare se stessa solo quando è in grado, per la prima volta, di raccontare a qualcuno la sua storia e le sue ferite psicologiche. Ritorna così questa idea per me molto centrale e importante del potere salvifico delle storie».

Secondo lei c’è sempre un rapporto simbiotico tra investigatore e indagine che segue? Una sorta di principio dei vasi comunicanti, dove l’uno influenza e viene influenzato dall’altro?

«Io forse non direi sempre, dipende molto dai casi e dalle indagini. Ci sono alcuni casi che diventano ossessioni autentiche e in cui questo fenomeno sicuramente accade. Per quanto mi riguarda, nella mia vita precedente come magistrato è successo, in altri casi entra la routine professionale, per cui nulla di questo discorso vale. A volte però è vero, accade: c’è una sorta di partecipazione emotiva profonda che si lega all’aspetto intellettuale e critico del lavoro, portando l’investigatore a una passione che lo porta a lavorare in maniera indefessa al caso che sta seguendo».

Molti dei suoi romanzi indagano il rapporto e le differenze tra la legge e la giustizia. Quanto è grande il divario tra questi due concetti secondo lei?

«Certamente sono due cose diverse, che viaggiano assieme, o quantomeno si dovrebbe cercare di farle viaggiare insieme. Ma sono due categorie diverse. Però sono legate in maniera indissolubile nel momento in cui ci si pone il problema di “come” fare giustizia. Non c’è un altro modo di fare giustizia o di avvicinarsi a un’idea di giustizia se non nel rispetto della legge. Questo lo dice anche Penelope nel romanzo. Semplicemente perché al di fuori c’è l’arbitrio, c’è un’idea soggettiva di giustizia, e se l’idea è soggettiva non può dirsi giustizia, che invece dovrebbe essere la riparazione di un danno, di una lesione, prodotta nella sfera di chi è colpito dal reato ma in generale dalla società che viene turbata dal crimine».

Per il primo romanzo era stato minacciato dai suoi lettori per riportare il prima possibile sulle scene Penelope. Ora pensa che i suoi lettori dovranno ricorrere nuovamente alle minacce o ha intenzione di scrivere ancora di lei di sua spontanea volontà?

«Ormai sono abbastanza abituato alle minacce, perché ne ricevetti parecchie anche per la serie di Guerrieri. Ce n’è stata una bellissima, accaduta dopo il terzo libro della serie: in un’intervista mi chiesero se avessi intenzione di continuare con la serie e io risposi che non lo sapevo, che in quel momento non rientrava nei miei programmi, perché mi sarebbe piaciuto dedicarmi anche ad altre storie. Il giorno dopo mi arrivò un messaggio sulla posta elettronica che diceva: “Stai molto attento a quello che fai a Guido Guerrieri, perché… hai presente Misery?”. Da quel giorno sto molto attento ai miei lettori. Soprattutto a non farli arrabbiare».

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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