SASSARI. Anche il cuore, alla fine, resta foderato da una ffp2. Una protezione integrale dentro al petto, per non far filtrare troppo dolore. Il covid, nei momenti più difficili, non solo ha reso asettici i rapporti umani, ma talvolta ha sterilizzato i sentimenti. A fare da cavie, come tanti animaletti chiusi in laboratorio, sono stati i medici. Stare in prima linea sul fronte della pandemia per due interminabili anni li ha sottoposti a uno stress insostenibile. Da medici, mese dopo mese, molti di loro si sono trasformati in pazienti.

«Non capisco che mi succede. Non mi riconosco. Non riesco più a provare empatia nei confronti dei malati. Rimango freddo, distaccato. La loro sofferenza e addirittura la morte mi lascia indifferente. È una cosa terribile». Antonello Serra, responsabile della sorveglianza sanitaria dell’Aou, e lo psicologo Giovanni Carpentras, in alcuni momenti ricevano anche più di 150 telefonate al giorno. Erano richieste di aiuto, di medici sull’orlo o in pieno burnout. «Una esperienza così estrema, come quella vissuta durante la prima ondata – spiegano Serra e Carpentras – è paragonabile solo a quella vissuta in disastri ambientali. Il covid ha avuto l’impatto di un terremoto. Solo che è stato un terremoto che si è protratto per anni. Perciò la sindrome post traumatica da stress, che in genere ha una parentesi temporale limitata, in questo caso è fuori range, ha una durata del tutto anomala».

Per questo gli effetti della pandemia sul personale medico sono solo all’inizio della conta, e la scia del long-covid deve ancora srotolarsi. I più vulnerabili sono stati gli specializzandi, un po’ come i soldati semplici, senza l’addestramento adeguato, mandati subito in prima linea a guardare in faccia la morte. «In genere – spiega il direttore sanitario Franco Bandiera – agli specializzandi è riservato un rodaggio soft. Vengono affiancati dai colleghi di esperienza, imparano il mestiere con i giusti tempi».

Il covid invece ha bruciato le tappe, è stato un salto nel vuoto senza paracadute. «Alle spalle avevo solo qualche guardia medica – racconta una specializzanda di medicina d’urgenza – nell’autunno del 2020 ho scelto di lavorare in un reparto covid. I ritmi erano disumani, turni anche di dodici ore, con le doppie mascherine che ti opprimevano e ti causavano un mal di testa tremendo, con la tuta che diventava una sauna. Era un malessere non solo psicologico, ma anche fisico. Ricordo che la sera rientravo a casa distrutta, e poco prima di aprire la porta scoppiavo a piangere. Ogni sera, un pianto a singhiozzi, dove tiravo fuori tutta la sofferenza che incameravo».

L’esperienza della morte, anche se così densa, l’hanno respirata attraverso i loro dpi. «Mi impressionava l’evoluzione clinica di alcuni pazienti. Erano anche giovani, con un quadro stabile, e poi improvvisamente desaturavano, senza motivo. I libri ti insegnano a ragionare per causa effetto. Fai una cosa, ottieni un risultato. Il covid invece ci disarmava, e ti sentivi impotente». Poi c’erano i cadaveri, trattati come rifiuti radioattivi da smaltire velocemente, con un bustone nero e una secchiata di varechina. Anche medici con le spalle più larghe, che hanno auscultato il dolore e la morte per tanti anni, hanno barcollato dopo una simile onda d’urto. Per tutti il carico di lavoro percepito era disumano, e soprattutto il covid è stato un nemico che non ha mai allentato del tutto la presa. Così in tanti sono andati in autoprotezione, come le centraline che preservano i motori prima di fondere.

«La prima ondata è stato uno tzunami – spiega lo psicoloco Carpentras – tutti avevano terrore anche di respirare. Non si sapeva niente del Covid, delle modalità di contagio. Il ritmo di lavoro disumano in ospedale per alcuni versi ha funzionato da difesa, perché non c’era il tempo di pensare e avere paura. I medici agivano. E in quel momento sono diventati degli eroi. L’approvazione sociale ha funzionato come sostegno, infondendo forza e fiducia. Poi però, con le campagne vaccinali, la sanità è finita sotto attacco, e i medici non erano più gli eroi, ma i collusi con il sistema e Big Pharma. Così viene meno l’approvazione sociale, e quella gratificazione interiore pian piano si trasforma in rabbia».“Io sono quello che rischia la vita per salvarti, e tu punti il dito contro di me”.

I medici si chiudono in se stessi, formano una corazza e si riduce il senso di empatia verso gli altri. Ma anche questo cambio di approccio provoca disagio interiore, senso di colpa e rabbia verso se stessi.
I sanitari si rifugiano nel tecnicismo, si raffreddano, e il paziente smette di essere una persona che soffre, ma una patologia da curare. I livelli di stress sono oltre ogni soglia, e l’Aou corre ai ripari. Comincia ad analizzare scientificamente e statisticamente lo stress del personale. Somministra questionari psicometrici tramite mail, il dottor Serra e Carpentras aprono dei canali di ascolto e dialogano con i medici, e soprattutto lavorano sui gruppi, che già erano nati spontaneamente tra i colleghi di reparto, per darsi forza l’uno con l’altro. La coesione interna, la consapevolezza di aver vissuto insieme un’esperienza estrema, la condivisione delle debolezze e dei problemi, si trasforma in un solido pilastro. Alla fine, se la sanità ha vacillato ma non è crollata davanti al covid, lo deve soprattutto allo spirito di squadra.

 

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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