SASSARI. Quella relazione di servizio redatta da due carabinieri immediatamente dopo un episodio accaduto a ottobre del 2014 fuori da un bar di Pozzomaggiore, per il collegio presieduto dal giudice Elena Meloni (a latere Monia Adami e Paolo Bulla) era falsa.

E per questo reato ieri mattina sono stati condannati a un anno e due mesi ciascuno il maresciallo Luca Porceddu e l’appuntato Fabio Antioco Casula, all’epoca in servizio alla compagnia dei carabinieri di Bonorva. L’episodio costato un processo ai due militari risale a una sera di otto anni fa quando tentarono di arrestare con modalità “discutibili”, secondo la Procura, il 45enne di Pozzomaggiore Michele Chessa (costituitosi parte civile con l’avvocato Giampaolo Murrighile).

Proprio Chessa era stato fermato in paese dalla pattuglia, poi sarebbe stato strattonato, ammanettato e colpito con un pugno da Casula (per questo reato ieri il collegio ha dichiarato non doversi procedere per difetto di querela). Il tutto davanti a testimoni che erano intervenuti in gruppo per difendere il loro compaesano. Tra le persone che avevano assistito alla scena c’era anche il luogotenente Giuseppe Saiu, fuori servizio, di Pozzomaggiore come la vittima. E fu proprio lui a riportare in una relazione di servizio come andarono le cose, smentendo il rapporto redatto dai due militari Porceddu e Casula che avevano raccontato di voler arrestare Chessa per resistenza a pubblico ufficiale considerato che quest’ultimo «nel divincolarsi dalla presa dell’appuntato Casula – così avevano scritto gli imputati – aveva colpito il militare accidentalmente con uno schiaffo all’orecchio sinistro» e che «l’appuntato Casula, nella concitazione del momento, aveva colpito inavvertitamente Chessa con un pugno al volto». «Volevamo portarlo in caserma per identificarlo ma lui rifiutava di seguirci – era stata la tesi del maresciallo Porceddu – L’appuntato ha colpito senza volerlo l’uomo, che si divincolava, causandogli un taglio con l’anello che portava all’anulare». «Rientravo dalla latteria del paese – aveva invece detto Chessa – ho parcheggiato l’auto e insieme a mio cognato sono andato verso il centro. I carabinieri mi hanno fermato e mi hanno chiesto i documenti. È successo tutto in poco tempo, ricordo che l’appuntato mi mise la manetta nel polso destro e poi ho sentito il pugno e il freddo del metallo».

Secondo la ricostruzione di Saiu quella sera non ci fu alcuna colluttazione, piuttosto i suoi colleghi tentarono di eseguire un arresto arbitrario, tanto che numerose persone uscirono dal bar gridando “vergogna, vergogna” all’indirizzo dei due carabinieri. Agli imputati era anche stato contestato il tentato sequestro di persona (per aver cercato di ammanettare e far entrare Chessa nell’auto di servizio) ma da questo reato sono stati assolti perché il fatto non sussiste.

In seguito a queste circostanze il comando provinciale dell’Arma avviò un’indagine e a coordinare il caso fu il sostituto procuratore Giovanni Porcheddu (lo stesso che ha chiesto la condanna dei militari). All’esito dell’inchiesta emerse che Porceddu, Casula e alcuni altri colleghi (poi scagionati dalle accuse in udienza preliminare) avrebbero architettato un piano di vendetta nei confronti del luogotenente Saiu, dei suoi familiari e di quei cittadini che avevano contribuito a far incriminare i due militari.

Inchiesta – questa – che rappresentò l’origine di un clima di veleni che arrivò a toccare i piani alti dell’Arma e che determinò trasferimenti di ufficiali.

«La sentenza – le parole dell’avvocato Murrighile – è stata capace di restituire dignità all’Arma dei carabinieri che ha saputo con energia e rigore ripristinare il principio di legalità e corretta amministrazione della giustizia».

«Siamo pronti a ricorrere in appello» il commento dell’avvocato Agostinangelo Marras, difensore dei due carabinieri, dopo la lettura delle motivazioni.

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Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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