Il dialogo tra Gherardo Colombo e Liliana Segre ripercorre la più grande tragedia umanitaria della storia, di cui la senatrice a vita – ai tempi aveva appena compiuto 8 anni – è stata suo malgrado testimone diretta. Il confronto è diventato un libro, “La sola colpa di essere nati”, Garzanti, che l’ex magistrato presenterà domani 9 maggio alle 18 alla Camera di commercio di Sassari al festival Éntula. Previsti due incontri con gli studenti del liceo Pitagora di Selargius, sempre domani 9 maggio alle 11, e del Polo tecnico Devilla di Sassari, martedì 10 alle 11.30.

Colombo, come nasce l’incontro con Liliana Segre?

«Per caso. Non la conoscevo di persona, solo di fama. Ci siamo incontrati al Giardino dei Giusti di Milano e abbiamo scambiato qualche parola. Ci siamo rivisti e mi è venuto in mente di mettere insieme le sue esperienze con il percorso delle leggi razziali. Lei ha detto sì».

Quanto è importante 80 anni dopo coltivare la memoria?

«È essenziale. Se non si conosce il passato non si può vivere adeguatamente il presente».

Ascoltando le parole di Liliana Segre viene ancora da chiedersi come sia potuto succedere: lei ha una risposta?

«Una volta mi era stato suggerito di vedere “L’uovo del serpente” di Ingmar Bergman. Tra le altre cose tratta della nascita del nazismo. Ciò che è estremamente interessante è vedere come il muoversi del modo di pensare abbia fatto sì che quello che era stato rifiutato una ventina d’anni prima – Hitler processato e condannato – sia diventata una cosa accolta rapidamente e diffusamente vent’anni dopo».

Un precedente che fa paura.

«È necessario pensarci, sensibilizzare i ragazzi, ma non è facile. Si sentono tanti messaggi di segno diametralmente opposto, c’è una esaltazione della forza fine a sé stessa».

Quando giustizia e legalità non sono più conciliabili?

«La legalità è il rispetto della legge e la legge può anche essere ingiusta. E quando lo è? Perché anche la parola giustizia cambia contenuto a seconda dei momenti storici. Nel 1600 era ritenuto giusto bruciare gli eretici. Io credo che il senso alla parola giustizia venga dato dall’esperienza. Da noi la misura delle leggi è data dalla Costituzione. Prima la discriminazione era un valore – fino al 2 giugno 1946 le donne non contavano niente -, poi è stata bandita dalla Carta: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, recita l’articolo 3. Questo dipende dal vissuto delle persone che hanno scritto la Costituzione: due guerre mondiali, la Shoah, l’atomica. La domanda che si sono fatti è stata: come fare per salvarci? La risposta: bisogna riconoscere la dignità di ciascuna persona. E lo hanno fatto attraverso la Costituzione».

Trent’anni dopo Mani pulite qual è il bilancio di quella che viene definita una rivoluzione?

«Ma quale rivoluzione. È stato un processo penale di dimensioni grandissime perché la corruzione era grandissima. Finite le indagini è continuata la corruzione».

In una recente intervista ha detto che nell’estate 1992 capì che Mani pulite avrebbe avuto vita breve mentre si trovava su un traghetto per la Sardegna…

«Un marinaio, dopo avermi detto “bravissimi, andate avanti”, mi chiese una mano per aiutare il figlio o il nipote – non ricordo – per entrare in polizia. Lì ho capito che Mani pulite sarebbe finita quando sarebbe emerso che il mancato rispetto della legge era molto diffuso».

Dopo l’addio alla magistratura lei porta avanti la campagna contro l’abolizione del carcere: c’è anche un’autocritica?

«Non per la stagione di Mani pulite. Per 33 anni mi è successo di mandare in prigione tante persone, da giudice di assolverne anche. Ma pensavo che il carcere fosse educativo. Se c’è una autocritica è quella».

Ma abolire il carcere è davvero possibile?

«Ci vorrà un po’. Chi è pericoloso deve stare da un’altra parte finché è pericoloso. Ma in questa altra parte i suoi diritti che non vanno a confliggere con le libertà altrui devono essere tutelati».

Da anni incontra gli studenti per parlare di Carta e legalità: la domanda più frequente?

«Dipende dai luoghi, dalle cose che hanno letto. Spesso mi chiedono di parlare di discriminazioni di genere, ultimamente di guerra, di articolo 11».

Nel dibattito sull’articolo 11 come si schiera?

«L’articolo 11 dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento di aggressione e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ma poi c’è l’articolo 52 che prevede il servizio militare obbligatorio. Se l’Italia ripudiasse la guerra in generale sarebbe un controsenso avere le forze armate. Ma l’Italia mica la ripudia come strumento di difesa. E a questo punto: di sé stessa o anche di altri? Non c’è alcuna distinzione. Anzi l’articolo 3 dice che tutte le persone sono degne e l’articolo 10 che lo straniero a cui nel suo Paese è impedito l’esercizio delle libertà può essere accolto in Italia. Non si tratta di difendere sé stessi ma i diritti di chiunque in generale. Il problema è stabilire ciò che è lecito e illecito, ma guardando al concreto, perché la Costituzione non esclude si possa intervenire a favore di chi è aggredito».

 

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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