Le sue prime parole sono di elogio e ringraziamento per il premio Costa Smeralda, la Sardegna, i sardi, il mare bellissimo, i lettori italiani. Ma non appena si pone l’accento sulla attualità, sulla guerra in Ucraina, sul rischio atomico, il sorriso di Orhan Pamuk si spegne. Il Nobel per la Letteratura è a Porto Cervo, prima volta nell’isola, per ritirare il premio interazionale del Costa Smeralda (l’appuntamento di domani, lunedì 30, a Nuoro è stato annullato). Una occasione in cui lo scrittore turco, autore di romanzi come “Il mio nome è rosso”, “Neve” e “Il museo dell’innocenza”, ha parlato anche di temi legati al difficile momento che il mondo sta attraversando. A partire dal conflitto che ha fatto ripiombare l’Europa nel dramma.

Pamuk, sono passati tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina: è sempre convinto che prevarranno le logiche della Guerra fredda tra Russia e Stati Uniti a discapito della popolazione ucraina?
«Potremmo chiederci: anche questa è una guerra fredda? E direi sì e no. Sì perché l’intera umanità ha il terrore della bomba atomica. Ci sono due poli: abbiamo da un lato quelli che si sentono minacciati e dall’altro quelli che vogliono combattere questa guerra fredda, che però fredda lo è solo in parte. Rispetto al passato non ci sono due superpotenze che si affrontano. Oggi abbiamo un’unica parte, la Russia – forse possiamo anche menzionare la Cina – che si è posta contro l’intero sistema mondiale. Contro il capitalismo, ma anche contro il socialismo. E questa è la forte minaccia che allarma tutti. Nella guerra fredda c’era sempre una opposizione tra capitalismo e socialismo e in qualche modo anche l’intero sistema economico, geografico e militare trovava un equilibrio. Oggi, invece, abbiamo il potere della Russia che minaccia il mondo con la atomica e di fatto crea uno squilibrio».

Il rischio atomico è realistico?
«Se uno ha l’atomica il rischio c’è sempre. Se possiede questa arma anche un paese economicamente povero è molto pericoloso. Lo stesso si può dire di un piccolo paese se è guidato da un dittatore pazzo. Sembra un romanzo, ma purtroppo è la realtà. Ricordo un libro ambientato in Australia, “L’ultima spiaggia” del 1957, che parlava di una piccola potenza atomica che causò una guerra, portando il mondo alla catastrofe, con le persone che aspettavano di morire. Oggi l’intera umanità è preoccupata. Per settant’anni era stato trovato il modo di farci dimenticare l’incubo atomico, le Nazioni unite si erano impegnate per difendere la pace. Ora, in un attimo tutte quelle illusioni sono state spazzate via».

“Nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”: così la motivazione con cui le è stato conferito il Nobel nel 2006. Oggi quali sono questi simboli?
«In questo momento i simboli che rappresentano armonia e civilizzazione perdono qualsiasi potere. Quando abbiamo a che fare con una nazione che terrorizza tutti con la bomba atomica non hanno più valore. In passato sono stato critico con Barack Obama, che quando la Russia invase la Crimea non è intervenuto. Ma poi mi sono detto: cosa avrebbe potuto fare? Se avesse reagito a Putin sarebbe stato come il Re Lear di Shakespeare: “farò cose che spargeranno terrore sulla terra”. Se fosse intervenuto forse sarebbe stata usata l’atomica».

Cosa significa per lei essere turco?
«La propria nazionalità è sempre molto importante, ma quello che per me conta di più è la lingua. Il mio sentirmi turco, il mio senso di appartenenza si basa sulla mia vita a Istanbul, ma è più una questione di lingua che di razza o di sangue. Certo, poi c’è anche un legame per questioni geografiche e religiose, ma l’unica lingua con mi sento a mio agio e con cui mi piace fare acrobazie è il turco».

Il suo sentimento per l’Europa?
«Io sono un turco “occidentalista”, e non sono l’unico. Come me sono milioni di persone. Anche Ataturk, fondatore della Repubblica turca, era filo europeo. Ma nel Paese c’è ancora un cinquanta per cento della popolazione che si oppone all’idea di Europa».

A settembre in Italia esce il suo nuovo romanzo, “Le notti della peste”, edito da Einaudi. Ci sono legami con la pandemia?
«In Turchia il libro è già uscito sei mesi fa, come anche in Francia e Germania. In Russia un mese prima che scoppiasse la guerra. E come ho già detto nelle tante interviste date in questi mesi ho iniziato a scriverlo sei anni fa, ma già da quarant’anni volevo fare un libro sulla peste. Quando lo dicevo ai miei amici mi rispondevano: “ma scherzi? a chi può interessare un libro su questo argomento?”. Poi quando è scoppiata la pandemia mi hanno detto che ero stato molto fortunato. Ma non è così: una delle prime vittime di coronavirus a Istanbul è stata mia zia. Questa cosa mi ha fatto anche sentire in colpa, perché il libro stava avendo successo, ma quello che io raccontavo mi aveva colpito personalmente. È come se fosse intervenuto il karma: di questo argomento me ne ero occupato per diversi anni, avevo letto tantissimo, e alla fine sono stato coinvolto in prima persona».

Tra la pandemia e la guerra in Ucraina gli intellettuali hanno spesso preso posizioni controverse, discutibili: pensa che in certi casi avrebbero fatto meglio a scegliere il silenzio?
«Il fatto che si possa parlare è una cosa meravigliosa. Arrivo da un Paese in cui è stata soppressa la libertà di parola e insegno per un semestre negli Stati Uniti dove il dibattito è una cosa normale. Io ero favorevole alla quarantena, ma ci sono anche dei pazzi negazionisti per cui qualsiasi decisione era sbagliata. In casi come questi il dibattito forse è inutile ma è una cosa stupenda, soprattutto quando si arriva dalla Turchia. Mi trovo in assoluto disaccordo con Donald Trump, ma bloccargli il profilo Twitter è stato un gravissimo errore. E in America, purtroppo, non c’è stato un grande sollevamento per chiedere di togliere questo divieto».

Fonte notizia: La Nuova Sardegna > Homepage

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